Il pane perduto è l’ultimo libro di Edith Bruck: scopriamo la vita della scrittrice, sopravvissuta alla Shoah quando aveva solo 13 anni.
Edith Steinschreiber (in arte Bruck) è una scrittrice, poetessa e traduttrice ungherese ma naturalizzata italiana. A soli 13 anni, la donna è stata deportata ad Auschwitz; da lì Edith viene trasportata in altri campi di concentramento, fino ad arrivare a Bergen-Belsen (dove, a 14 anni, verrà finalmente liberata insieme alla sorella). Dopo la fine della guerra Edith Steinschreiber ha tentato di ritornare nella sua casa in Ungheria: la fine della guerra, però, per molti non ha significato anche la fine delle discriminazioni. Senza una famiglia e senza una casa, la donna prima si trasferisce in Israele (dove si sposa e prende il cognome del marito, Bruck); in seguito si stabilisce a Roma, in Italia, dove vive ancora oggi.
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Nel 1959 Edith Bruck inizia la sua carriera come scrittrice: adottando la lingua italiana, la donna riesce ad ottenere il distacco emotivo necessario per poter raccontare la sua esperienza come testimone della Shoah. Il suo ultimo libro, Il pane perduto, è stato pubblicato quest’anno (sessant’anni dopo dall’uscita del suo primo libro, Chi ti ama così).
In un’intervista con Treccani, Edith Bruck ha parlato della necessità di tornare a scrivere. “Sono passati sessant’anni dal mio primo libro, che ho pubblicato nel 1959, e ho pensato che fosse il tempo giusto per ricominciare: la memoria umana è molto corta. Oggi dappertutto c’è un nuovo dilagare di razzismo, di antisemitismo. Ho pensato di ricominciare perché i tempi cambiano, il mondo cambia, la politica cambia, cambia tutto. E perché tutto ricomincia daccapo, tutto si ripete”.
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“Credo che l’uomo non impari nulla dai propri errori e vada anzi verso la propria autodistruzione. Ecco perché abbiamo bisogno del racconto” spiega Edith Bruck nella sua intervista con Treccani. “Ma non si racconterà mai abbastanza e, secondo me, non si potrà mai raccontare abbastanza. Perché sempre rimane qualcosa fuori dalle nostre storie, che non possiamo esprimere, perché non è esprimibile a parole. Non ci sono parole per raccontare quell’orrore, secondo me”. Proprio per questo, alla fine del suo libro la scrittrice sostiene che servirebbero “parole nuove, anche per raccontare Auschwitz, una lingua nuova”.
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